lunedì 21 gennaio 2008

Qualcuno chiedeva: che vuol dire fascista?

di Simone OGGIONNI
Coordinatore G&C area Essere Comunisti
Coordinamento nazionale Giovani Comunisti Prc

Lunedì, mentre a Isernia Celeste Caranci, presidente dell’Arci locale, veniva accoltellato da un militante di Fascismo e Libertà (ossimoro che nel 1991 Giorgio Pisanò coniò nel dare vita all’ennesimo movimento organizzato dell’estrema destra italiana), Ludovica Bragagnolo, studentessa trevigiana di 18 anni, subiva – sola, chiusa a forza nel bagno di un treno che stava raggiungendo Castelfranco - un brutale pestaggio da parte di due ventenni appartenenti a Forza Nuova.

Non serve dire che sono soltanto gli ultimi episodi di una catena di aggressioni e pestaggi che hanno per bersaglio militanti della sinistra, omosessuali e migranti, di una sequenza di assalti e attentati alle sedi delle associazioni e dei partiti anti-fascisti.

Come è superfluo dire che alcuni di questi atti di squadrismo sfociano nella tragedia, infliggendo ferite non più rimarginabili nella vita di famiglie e intere comunità, nella memoria civile di un Paese che i conti con la barbarie nazi-fascista avrebbe dovuto chiuderli in modo definitivo già sessant’anni fa.

Ciò che serve, invece, è un gesto istituzionale di rottura chiaro e definitivo nei confronti di un mondo, quello dell’eversione neo-fascista, che ha agito, sottotraccia quando non palesemente, sin dagli albori della storia repubblicana. Anche prima, quando – tra l’ottobre e il dicembre del 1943 – nel Sud Italia appena liberato i primi gruppi clandestini iniziarono a diffondere la propaganda fascista. Anche quando, subito dopo il 25 aprile 1945, nel Nord si moltiplicarono le nuove sigle dei gruppi d’assalto (dalle Squadre d’Azione Mussolini ai Fasci d’azione rivoluzionaria) che, alla propaganda, affiancavano omicidi e assalti alle sedi dei rinati partiti della sinistra.

Quei focolai – insieme all’esperienza del Fronte dell’Uomo Qualunque e delle molte riviste teoriche (come La Rivolta ideale, a cui collaborarono quasi tutti i futuri esponenti del neo-fascismo italiano, da Giorgio Almirante a Julius Evola) – furono le radici del Movimento Sociale Italiano: il partito del neo-fascismo italiano, in cui sin da subito confluì larghissima parte di quella galassia. E con cui, in tutti i tornanti più drammatici della vicenda terroristica ed eversiva nel nostro Paese (dai tentativi di colpo di Stato del 1964 e 1970 alle stragi di piazza Fontana, di Peteano e piazza della Loggia, del treno Italicus e della stazione di Bologna), anche i gruppi esterni all’Msi mantennero un rapporto di esplicita contiguità.

Il terremoto politico del 1992, l’approdo ad un sistema tendenzialmente bipolare (e, sul piano elettorale, maggioritario) e l’azzardo di Silvio Berlusconi portarono alla trasformazione dell’Msi in Alleanza Nazionale (cioè all’accentuazione dei tratti istituzionali e perbenisti del neo-fascismo classico) e per conseguenza alla nascita (in uno spazio politico lasciato vuoto, almeno sul piano formale) di nuovi soggetti dell’estremismo di destra.

Evidentemente, se questi gruppi – a distanza di quindici anni dal decreto Mancino – non solo sopravvivono ma si rafforzano, reclutando in misura crescente consensi e militanza pressoché ovunque nel nostro Paese, bisogna fare di più.

Occorre esigere il rispetto immediato della XII norma finale e transitoria della Costituzione italiana, quella che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista», nello spirito e nell’accezione precisata dall’art. 4 della legge 205/93, appunto il decreto Mancino, che estende a chiunque commetta o inciti (ad) «atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi» le pene previste dall’art. 4 della legge 20 giugno 1952 per chi «pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità anti-democratiche».

Occorre, se ciò non fosse sufficiente, avanzare formalmente la proposta di un nuovo testo legislativo che sciolga immediatamente tutte le formazioni eversive nazifasciste coinvolte, negli ultimi anni, in fatti di sangue.

Intendiamoci: nemmeno questo salto di qualità nell’offensiva antifascista sarebbe di per sé risolutivo. Siamo consapevoli del rischio che ad una impostazione meramente repressiva consegua un esito improduttivo, quando non controproducente. Tanto più se si considera il profondo radicamento del fascismo (testimoniato dalla capacità sempre crescente del neo-fascismo di limitare, in molti territori, l’agibilità politica della sinistra) in taluni settori della società italiana.

Il principio del capo e la riproduzione sistematica di gesta squadristiche (quando non la costruzione di una vera e propria milizia privata); un’ideologia elitaria, gerarchica, razzista e antiegualitaria; il mito nazionalistico; l’insofferenza nei confronti di un’architettura istituzionale costruita intorno all’indipendenza dei poteri dello Stato; la costruzione di un blocco di potere che, sulla base di queste premesse, cementa un’alleanza delle forze dominanti conservatrici; l’esercizio del potere come monopolio assoluto: sono tutti caratteri – individuati organicamente da Reinhard Kühnl (Due forme di dominio borghese: liberalismo e fascismo, 1971) ed Enzo Collotti (Fascismo, fascismi, 1989) – che definiscono l’essenza ricorrente del fascismo. E che, confrontati con la società e, di riflesso, con il quadro politico italiano, configurano un contesto davvero preoccupante. Anche di esso dobbiamo, in pieno, farci carico.

A Celeste Calanci e, ancor di più, alla giovane Ludovica Bragagnolo, aggredita in treno perché cantava la più bella delle canzoni partigiane, diciamo che siamo loro vicini. Vicini alle ragioni del loro antifascismo, a quel sentimento che Giovanni Pesce vedeva radicato, con una corrispondenza esatta tra passioni e progetti, «nel cuore di una battaglia democratica per una società di liberi ed eguali».

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