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Sono praticamente cresciuto nelle feste de L’Unità. Una trentina d’anni fa, nel mio comune, su diciotto frazioni si organizzavano diciassette feste; tante quante le sezioni del Pci. E il mio babbo non se ne voleva perdere nemmeno una, anche perché lì pareva conoscere tutti e a tutti si permetteva di dare del “tu”, con estrema confidenza.
“Ma quante persone conosce babbo?”, domandavo sempre con orgoglio e stupore.
“Non li conosce mica! Ma se son qui è come se fossero i suoi migliori amici…”, mi rispondeva ogni volta la mia mamma con impareggiabile efficacia.
Ogni festa era uguale a quella precedentemente visitata e questo mi dava sempre una gran sicurezza.
In ogni festa de L’Unità c’erano gli stessi personaggi: alla cassa un signore solitamente magro, un po’ stempiato ma ben pettinato, con una camicia stirata e chiara tutt’al più rigata da tinte pastello; al braciere, ad arrostire pezzature varie di manzo e di maiale, un paio d’omoni corpulenti, rigorosamente con i baffi folti e la canottiera aderente; in cucina, a tramestare tra i tegami, tante massaie attempate che somigliavano tutte alle mie nonne e ciò dava ampie garanzie sulla qualità delle pietanze in preparazione; la voce degli altoparlanti pareva sempre la stessa, dizione autorevole e scandita propria del sindacalista consumato e tono leggermente arrotato dal quotidiano pacchetto di Marlboro.
In ogni festa, anche nella più sperduta frazione collinare, c’era sempre una cameriera bellina, una principessina gentile e dolce, che guardavo ingenuamente fissandola negli occhi chiari o nelle guance sporgenti, non essendo ancora in grado di fantasticare intorno ai suoi fianchi, resi ancor più pronunciati da un grembiule allacciato ben stretto.
In ogni festa de L’Unità si distinguevano per eleganza gli “attaccatori di coccarde”, spesso una coppia giovane, che girava guardinga tra gli stand con un cestello e un mazzo di adesivi marchiati da una grande “U” bianca su campo rosso; e si notava per vigore oratorio il compagno che stava alla ruota, a far girare i numeri della roulette proletaria e a dispensarti, quando usciva il tuo di numerini, salami, spalle, chili d’olio o addirittura biciclette fiammanti; si notava meno, perché silenziosa e piena di pensieri, la ragazza che gestiva la libreria, rigorosamente senza trucco, con i pantaloni larghi e i capelli lunghi e lisci, divisi sulla testa da una riga centrale. La compagna libraia aveva la capacità di stare zitta e seduta anche due o tre ore di seguito e perfino quando ti aggiravi tra i volumi, cambiando loro disposizione e ordine, lei continuava la lettura di un impegnativo testo dell’Einaudi; raramente ti accennava un sorriso ma allora capivi che anche lei sarebbe potuta essere bella come la cameriera dal grembiule stretto.
In ogni festa si aggirava sempre il Segretario di Federazione, lo si ricosceva dagli occhiali spessi e dal borsetto sulla spalla sinistra, che poteva portare tranquillamente, in quanto Segretario, senza rischiare battutine sull’evidente effeminatezza che quell’accessorio in pelle conferiva; e spesso, col dirigente occhialuto, camminava in qua e il là il senatore di turno o il compagno giornalista venuto dalla sede Rai di Firenze che di lì a poco avrebbe fatto il comizio.
In ogni festa de L’Unità, dopo il comizio, un’orchestra di ballo liscio apriva sempre le danze con Bandiera rossa, che senza quell’incipit il cachet se lo scordava, ma talvolta poteva capitare di trovare sul palco un giovane buffo e scalmanato, dalla lingua volgare e maligna al contrario del suo cognome: Benigni.
Ogni festa era davvero una festa per me, perché la mia mamma mi lasciava girovagare da solo, tra cespugli, bandiere e odore di salsicce arrostite. E io andavo libero, perché in ogni festa anche i ragazzi più grandi, anche quelli grandissimi di quattordici o quindici anni, che alla Casa del Popolo mi ignoravano e andavano sempre dietro alla pista di pattinaggio senza invitarmi, lì mi sorridevano o mi facevano una battuta complice sull’odiatissima Juventus; e allora mi sentivo il re del mondo, protetto da tutti, e libero anche di perdere l’orientamento, che tanto una mano forte e callosa mi avrebbe riportato nella giusta direzione.
In ogni festa poi, quando la luna era alta e cadeva il sereno e il clima si faceva più umido, mentre i più romantici si appartavano ad ammirare le stelle e più avvinazzati annunciavano alla notte l’imminente arrivo del socialismo, mi ritrovavo stanco e infreddolito e subito, come per magia, una bella maglia di cotone caldo calava ad avvolgermi le spalle. Io pensavo al bel gesto dell’omone coi baffi del braciere, che lui era invincibile ad ogni temperatura, e invece mi accorgevo che era stato il cassiere stempiato, perché nelle feste dell’Unità, un tempo, erano molto generose anche le persone magre.
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