martedì 19 gennaio 2010

Craxi, con lui ha vinto il neoliberismo

di Alberto Burgio

su Liberazione del 19/01/2010


Quando, il 29 aprile 1993, la Camera dei deputati negò l'autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, travolto dalle inchieste di Mani pulite, Silvio Berlusconi se ne compiacque, precisando di essere suo «grande amico e estimatore». Omise di dire che, oltre ad essere amico di Craxi (e di Licio Gelli), gli doveva gran parte delle proprie fortune, visto che, a suon di decreti-legge, Craxi gli aveva permesso di eludere sistematicamente le norme sull'emittenza televisiva. Ma, fatta eccezione per questo dettaglio, Berlusconi diceva il vero. I due erano legati a filo doppio, il che considerato chi è Berlusconi aiuta a capire chi fosse Craxi. Aiuta, ma non basta. Craxi fu anche il regista di un grande sistema di finanziamento illecito della politica che contribuì all'esplosione del debito pubblico italiano. Fu anche il massimo interprete di un intreccio tra affari e politica che, a partire dagli anni Ottanta, ha cambiato il Paese nel segno dell'individualismo proprietario, della spregiudicatezza e del rampantismo amorale. Di questi aspetti si occupò la magistratura, che lo condannò per gravi reati, il che rende l'odierno dibattito sulla sua riabilitazione indecoroso e rivelatore.
In questa discussione, alla quale purtroppo hanno ritenuto di prendere parte anche i massimi vertici dello Stato, non è difficile scorgere uno specchio dei tempi, dove la partita non è solo morale (Socrate scelse la cicuta pur di rispettare le leggi della Città) ma anche squisitamente politica: se Craxi fu un santo, in odore di santità sono anche i suoi amici ed eredi, a cominciare con buona pace di magistrati e codici dal presidente del Consiglio in carica. L'hanno detto a chiare lettere domenica a Hammamet i ministri Frattini e Sacconi, evocando la «giustizia ingiusta» l'uno e le vittime del «giustizialismo della sinistra» l'altro.
Craxi fu anche tutto questo, ma non soltanto questo. E se la commistione col sistema delle tangenti era funzionale a un disegno politico, quest'ultimo tuttavia non ne dipendeva, e oggi merita di essere valutato in base al suo fine e ai risultati raggiunti. Il fine era la guerra contro il Pci e, piaccia o non piaccia, questa guerra Craxi la vinse. Perciò
egli è un eroe agli occhi di quanti senza eccezione alcuna oggi contano e a vario titolo decidono in questo Paese. La faccenda della condanna e della latitanza è indubbiamente un problema, poiché sconsiglia la beatificazione. Ma la gratitudine è unanime. Non riguarda soltanto i ministri accorsi a Hammamet e gli industriali memori della vittoria sulla scala mobile. Nell'evocare commosso il «ruolo storico della figura di Craxi», l'on. D'Alema interpreta un sentimento diffuso anche nelle file democratiche e non è affatto un caso che il segretario del Pd parli di un non meglio definito «ruolo innovativo» di Craxi. Di che cosa si tratta , in definitiva? All'inizio degli anni Ottanta qualcosa in Italia stava succedendo.
135 giorni di sciopero alla Fiat avevano spinto Berlinguer ad archiviare la strategia del compromesso storico. Poi erano venuti l'intervista a Scalfari sulla corruzione politica dilagante e il sostegno alla battaglia pacifista contro i missili a Comiso. Erano tutti segni del radicalizzarsi di un conflitto sociale e politico del quale il Pci rischiava di divenire protagonista. Craxi riuscì a sbarrargli la strada, irrompendo nello scontro sulla scala mobile aperto dalla Confindustria. Appena giunto a palazzo Chigi, decretò il taglio di alcuni punti di contingenza, chiarendo subito da che parte stesse e con quale metodo avrebbe governato. Si andò poi al referendum, e Craxi ebbe la meglio. Come si suoi dire, nulla sarebbe più stato come prima. Né nel Pci (in cui i miglioristi si rafforzarono e che, morto Berlinguer, si avviò verso la Bolognina), né nel Paese, che in economia aprì le braccia al neoliberismo puntando tutto sulle privatizzazioni e la riduzione del costo del la- voro, e in politica tornò all'antico amore per il capo carismatico e la democrazia plebiscitaria. Di questa «modernizzazione» Craxi è stato il demiurgo. Se essere un politico di razza vuol dire vincere le battaglie e intuire le tendenze prevalenti, egli lo fu senz'ombra di dubbio, considerato che ancora oggi l'Italia segue la via che Craxi per primo intravide e imboccò. Se invece il discorso verte sulla qualità degli obiettivi, il meno che si possa dire è che egli fu uno dei più illustri esempi di trasformismo, cronico male italiano. Socialista, apri senza incertezze una guerra feroce contro il lavoro e l'autonomia sindacale. E si fece alfiere della corruzione e dell'illegalità finanziaria, incarnando la protervia di una classe politica determinata a sottrarsi ai dettami della legge. Del resto, non capitava per la prima volta. Anche agli inizi del Novecento nel nostro Paese un dirigente socialista divenne capo della destra inaugurando una lunga stagione di regressione sociale, politica e morale. Non sarebbe male se gli storici ci aiutassero a riflettere su tale ricorrenza, che non è affatto detto sia casuale e avara di insegnamenti.

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